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Capitolo 1 – Irina
La statale era quasi deserta. Solo il vento spostava la nebbia in piccoli vortici grigi, tagliati di tanto in tanto dai fari delle auto.
Irina stava sul bordo della strada, vicino al vecchio cartello arrugginito che segnava la curva verso il lago. Le mani affondate nelle tasche del giubbotto, il respiro che si condensava nell’aria fredda.
Era bella, ma di una bellezza consumata, di quelle che non cercano più sguardi.
Aveva i capelli biondo cenere, tinti male, con le radici scure che ricrescevano; li teneva raccolti in una coda che si scioglieva di continuo sotto il vento. Gli occhi grigi, chiari e stanchi, portavano un velo sottile di malinconia.
La pelle del viso era pallida, segnata da piccole rughe premature.
Indossava una giacca di pelle nera, un maglione rosso sbiadito, una gonna corta e stivali alti — abiti scelti più per necessità che per gusto, dettati da quello che “i clienti vogliono vedere”.
Al collo, sotto la giacca, portava una collanina d’argento con una piccola croce, unico ricordo della madre. Ogni tanto la toccava, come per assicurarsi che fosse ancora lì.
Era ferma accanto alla roulotte, aspettando.
Da lontano si udiva solo il rumore dell’acqua, invisibile nella nebbia, che lambiva la riva del lago.
E, come spesso accadeva nelle ore d’attesa, i pensieri di Irina tornarono a casa, molti anni prima.
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Era una mattina d’estate, calda e chiara.
Lei aveva diciannove anni e portava una gonna lunga di lino azzurro, le mani piene di secchi, in coda alla fontana del villaggio.
Le donne parlavano piano tra loro, ridevano, si scambiavano notizie.
Irina guardava l’acqua cadere nel secchio, pensava a sua madre che cucinava e a come avrebbero dovuto riparare il tetto prima dell’autunno.
Poi una macchina scura si era fermata poco più in là, al margine della piazza.
Ne erano scesi due uomini ben vestiti: italiani, dicevano. Uno portava una cartella di pelle, l’altro distribuiva volantini colorati.
“Cercano ragazze per lavorare nei ristoranti,” sussurrò una delle donne in fila. “In Italia, si guadagna bene.”
Irina non aveva mai visto l’Italia, ma sapeva che da qualche parte oltre i monti c’erano città di luci e vetrine, e che la gente parlava con dolcezza.
Uno degli uomini si era avvicinato, sorridendo.
Le aveva detto che aveva “un viso pulito” e che sarebbe stata perfetta come cameriera.
“Lavoro sicuro, vitto e alloggio. Documenti regolari. Ti aiutiamo noi, piccola,” aveva aggiunto in un rumeno spezzato ma gentile.
Le aveva dato un volantino con un numero di telefono, una foto di un ristorante sul mare, e le aveva messo in mano un biglietto con scritto ‘Partenza lunedì, non serve nulla. Pensiamo a tutto noi’.
Irina aveva creduto a ogni parola.
Aveva salutato la madre con le lacrime agli occhi e una valigia di cartone, giurando che sarebbe tornata presto, “con i soldi per il tetto e per un vestito nuovo”.
Ma il viaggio non portò mai al mare.
Dopo due giorni, in un furgone affollato, i documenti le furono tolti. Poi arrivarono i silenzi, gli ordini, le minacce.
“Devi lavorare per noi. Devi ripagare.”
Da allora, ogni notte era un debito, e ogni giorno una promessa non mantenuta.
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Il rumore di un motore la riportò al presente.
Un’auto si stava avvicinando lentamente, i fari che tagliavano la foschia come coltelli.
Irina tirò su il cappuccio, si aggiustò la gonna. La macchina si fermò a pochi metri.
Il vetro del finestrino si abbassò solo di un poco.
Una mano guantata apparve, silenziosa, porgendo alcune banconote.
Irina rimase immobile per un istante, poi fece quello che aveva imparato a fare senza pensare.
Spense la sigaretta, si chinò, aprì lo sportello.
Dentro, tutto era buio.
Entrò.
La portiera si chiuse con un clic sommesso.
La macchina ripartì, inghiottita dalla nebbia, diretta verso il lago
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Il lago era immobile, come se la notte si fosse dimenticata di andarsene.
Un velo di nebbia galleggiava sull’acqua, spesso, lattiginoso, e solo in alcuni punti lasciava intravedere il riflesso delle prime luci dell’alba.
L’aria sapeva di umidità, di legno marcio e di foglie bagnate. Le canne palustri ondeggiavano appena, producendo un fruscio lento, ritmico, simile a un respiro.
Dal pontile, una goccia cadeva a intervalli regolari, tic… tic… come un orologio che misurava il tempo del silenzio.
Sulla riva orientale, dove la ghiaia si mescolava al fango, camminava il generale Vittorio Corsi.
Settanta anni, spalle ancora dritte, passo fermo, nonostante l’età.
Portava un cappotto di lana grigio, un berretto di tweed e guanti di pelle consunti.
Al suo fianco, la fedele Luna, una pastora tedesca dal pelo dorato, gli occhi intelligenti e attenti.
Ogni mattina, da due anni, percorrevano lo stesso sentiero lungo la riva, finché il sole non si levava oltre la collina.
Era un rito.
Da quando Elena, sua moglie, era morta — una lunga malattia che l’aveva consumata piano — il generale aveva trovato in quella passeggiata l’unico modo per sentire ancora un ritmo nella vita.
Camminare, respirare, ricordare.
Lei amava il lago. Diceva sempre che l’acqua calma “mantiene le promesse meglio degli uomini”.
Ora, ogni mattina, Vittorio si fermava nello stesso punto, davanti al piccolo pontile di legno dove, anni prima, avevano scattato una foto insieme.
Si tolse il cappello, guardò l’acqua.
Il silenzio era quasi perfetto.
Solo Luna, qualche passo più avanti, annusava il terreno umido, la coda che si muoveva pigra.
Il generale pensò, come spesso accadeva, che la solitudine non era un vuoto, ma una presenza.
Una compagna muta, che siede accanto a te e non se ne va mai.
Non aveva figli, non aveva più nessuno.
Solo quel cane e quel lago.
Inspirò profondamente, il freddo gli punse i polmoni.
“Dai, Luna… torniamo a casa,” mormorò.
Ma il cane non si mosse.
Restava fermo, le orecchie tese, il muso rivolto verso un punto tra i canneti.
Poi, all’improvviso, cominciò a ringhiare piano, un suono basso, nervoso.
“Che c’è, ragazza?” disse Vittorio, avvicinandosi.
Luna fece un passo avanti, poi un altro, e d’un tratto si mise ad abbaiare forte, scavando con le zampe nella sabbia.
Il generale, infastidito e un po’ preoccupato, sollevò lo sguardo verso la direzione indicata dal cane.
All’inizio vide solo l’erba alta e la nebbia che si apriva a spirale.
Poi, qualcosa di diverso.
Un riflesso scuro, una linea verticale, fuori posto.
Fece ancora due passi, la vista non era più quella di un tempo ma bastò un istante per capire.
Dal canneto, tra l’acqua bassa e il fango, spuntava una gamba.
Nuda fino al ginocchio, lo stivale ancora ai piedi.
Per un momento, il generale rimase immobile.
Il respiro si fermò, come se il lago stesso avesse smesso di muoversi.
Solo Luna continuava ad abbaiare, furiosa, mentre la nebbia si apriva lentamente attorno a quella visione irreale.
Vittorio si fece il segno della croce.
Poi, con voce rotta, mormorò piano:
«Mio Dio…»
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Il ronzio del cellulare riempì la stanza, insistente, come una zanzara che non vuole farsi scacciare.
Elena Ferri aprì gli occhi di scatto.
Un filo di luce filtrava attraverso le fessure delle persiane, disegnando strisce dorate sulla parete.
Si passò una mano tra i capelli ancora spettinati, cercando alla cieca il telefono sul comodino.
«Ferri.»
La voce dall’altro capo era tesa, rapida:
«Commissario Ferri, mi scusi l’ora. È stato trovato un corpo, una donna, vicino al canneto del lago. Il vice commissario Monti è già sul posto. Ha detto che vuole che lo raggiunga subito.»
Elena si mise seduta, i piedi nudi che toccavano il pavimento freddo.
«Ok. Arrivo.»
Chiuse la chiamata. Restò un momento in silenzio, con il telefono in mano, ascoltando solo il ticchettio dell’orologio da parete.
Un corpo.
Al lago.
Si alzò, andò alla finestra e scostò le persiane. Il sole stava appena salendo dietro i tetti del paese, proiettando un chiarore pallido sulle colline.
In lontananza si intravedeva la superficie argentata del lago, immobile.
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Elena Ferri aveva trentadue anni, e da appena quattro mesi era diventata commissario capo del piccolo commissariato di provincia dove era nato suo padre — Giuliano Ferri, un giudice di Corte molto stimato, morto l’anno precedente dopo una lunga malattia.
Era stato proprio il ricordo di lui, della sua voce ferma e della sua idea di giustizia, a spingerla a tornare in quel luogo di cui da bambina ricordava solo le estati sul lago e l’odore di pini.
Alta, con un portamento elegante e deciso, Elena aveva capelli castano scuro, lisci e tagliati all’altezza delle spalle, occhi verdi, limpidi ma attenti, e lineamenti forti, intelligenti.
Indossava l’uniforme con naturalezza, senza mai cercare autorità: la emanava, silenziosa.
Colleghi e superiori la descrivevano come brillante, meticolosa, quasi ossessiva, ma anche empatica — una qualità rara nel mestiere.
Mentre si infilava i jeans, una camicia bianca e la giacca di pelle, si fermò a fissare per un istante la foto incorniciata sul comodino: lei e suo padre, scattata proprio davanti al lago, tanti anni prima.
Lui le sorrideva, la mano sulla spalla.
Dietro di loro, lo stesso canneto che ora tornava a farsi teatro di un delitto.
«Un corpo al lago…» mormorò tra sé, come se le parole dovessero ancora convincerla.
Prese la pistola dalla fondina, il distintivo, le chiavi.
Poi uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle.
La mattina era ancora fredda.
Salì sulla sua Alfa nera, mise in moto e partì verso il lago, mentre la luce dell’alba si rifletteva sul parabrezza come una lama.